roma anno zero


Note sul movimento, la sua crisi, ipotesi per ripartire

0. Gli appunti che seguono hanno un carattere volutamente lacunoso, più che un documento politico

compiuto, si tratta di un semi-lavorato. Una scelta e non una svista. Perché? Perché ci sembra

impossibile, in questa fase, presentare ragionamenti o proposte politico-organizzative definitive.

Non si tratta, evidentemente, di elogiare l’incompletezza; con un certo realismo, piuttosto, occorre

avere la forza di rilanciare delle ipotesi forti. Ipotesi di lavoro, però, da verificare sul campo, nella

sperimentazione, attraverso combinazioni inedite.

Saremo schematici, perché in verità mettiamo per iscritto una discussione appena iniziata. SCuP

è il “luogo del delitto”: una nuova occupazione romana che unisce sport popolare e produzione

culturale indipendente, progetti di comunicazione e socialità. A SCuP, in un luogo “nuovo”,

abbiamo deciso di rimetterci in cammino.

Siamo reti studentesche, centri sociali, occupazioni abitative, progetti comunicativi (web e

radiofonici), palestre popolari, un arcipelago di soggettività del conflitto che in questi anni,

a fasi alterne e con molte discontinuità, hanno provato a costruire un comune spazio politico

metropolitano a Roma. Non sempre ci siamo riusciti, ma i movimenti studenteschi e precari

esplosi a partire dal 2008, le lotte contro la speculazione e per la cultura come bene comune (le

nuove occupazioni, dal Cinema Palazzo al Valle), ci hanno sostenuto in una ricerca ambiziosa e

avvincente.

Vorremmo fare un passo ulteriore, vorremmo capire come le attività di coordinamento,

indubbiamente utili, che ci hanno tenuto assieme in questi anni, possano trasformarsi in un

rinnovato e potente patto federativo. Sulla centralità della relazione federativa, sul rapporto tra

spazio comune e differenza, torneremo più avanti. Ora si tratta di spiegare perché è possibile, in

una fase segnata dalla frammentazione delle soggettività politiche di movimento, insistere sulla

ricomposizione tra diversi.

1. Che la crisi nella quale siamo immersi a partire dal 2007-2008 sia una crisi strutturale e non

congiunturale, profonda e destinata a durare dunque, è ormai senso comune. Pur riconoscendo

il carattere originale e potente della crisi, però, si fa fatica a cogliere l’ampiezza dell’offensiva

capitalistica. Molto spesso, la categoria di «complessità», un po’ ovunque utilizzata per descrivere il

ritmo sincopato della crisi, nasconde più cose di quante tenta di spiegarne.

La “semplicità” di alcune categorie marxiane, di converso, ci sembra decisiva per afferrare i tratti

salienti del nostro tempo. Siamo nell’epoca in cui la «preistoria del capitale», quel processo da

Marx definito «accumulazione originaria», è diventata attuale e, aggiungiamo, permanente. La

provincializzazione dell’Occidente, agita dallo sviluppo capitalistico nei cosiddetti BRICS (Brasile,

Russia, India, Cina, Sud Africa), ci ha introdotto con forza in questa nuova scena, segnalandoci

che nella globalizzazione non esiste più un solo tempo storico, questo tempo, piuttosto, si è

frammentato. La crisi del debito sovrano in Europa, la leva del debito come «shockterapia»,

con forza ancora maggiore, ci sta facendo fare esperienza di questo rinnovato processo di

espropriazione.

L’accumulazione originaria vuol dire sempre due cose: recinzione, meglio, definizione della

proprietà privata capitalistica; produzione del «lavoratore libero», del povero. In merito alle

recinzioni, l’uso del debito pubblico (ma questo lo chiariva già lo stesso Marx) è decisivo e i fatti di

questi mesi lo dimostrano con chiarezza cristallina. Dalle svendite dei porti, delle autostrade, delle

isole in Grecia fino alla privatizzazione delle public utilities in Portogallo o in Spagna, in Italia o

in Irlanda. I PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), i paesi che più si sono indebitati in

questi anni, facilitati dai bassi tassi di interesse garantiti dalla moneta unica, sono oggi il bersaglio

di un vero e proprio saccheggio che vede protagonisti le banche tedesche come i fondi sovrani

cinesi o del Qatar.

Sembra meno evidente, però, capire che cos’è il lavoratore libero o il povero nell’Europa e

nell’Occidente in cui viviamo. Torniamo a Marx, per poi andare oltre. Il lavoratore libero,

nell’Inghilterra o nell’Olanda del ‘500 e del ‘600, è colui che, spoliato della terra e dei mezzi di

lavoro, è costretto a migrare e a vendere, come una merce, la sua forza-lavoro. Se pensiamo

all’Europa di oggi, quella caratterizzata dalla centralità strategica del capitalismo cognitivo e

informazionale, il povero è un soggetto del tutto nuovo. Per un verso è il ceto-medio “declassato”,

forza-lavoro qualificata, esito maturo della scolarizzazione di massa conquistata dai movimenti

degli anni ’60 e ’70, prevalentemente precaria nel rapporto lavorativo, spesso disoccupata, sempre

priva di futuro. Per l’altro è un nuovo proletariato metropolitano “intrappolato”, espulso o escluso

dai cicli formativi, quasi sempre disoccupato o dedito ad attività lavorative illegali, altrettanto privo

di futuro, oltre che, spesso, dei normali diritti di cittadinanza. Entrambe queste figure sono già state

o saranno sempre più obbligate alla migrazione, così come d’altronde vuole la teoria delle «zone

monetarie ottimali» di Mundell, base dell’invenzione e costituzione dell’euro.

Queste due figure contemporanee della povertà, correttamente descritte dal 99 per cento di

Occupy Wall Street, sono quasi sempre divise, spesso contrapposte. Connetterne la rabbia,

attraverso la definizione di un programma e di una pratica politica schiettamente anticapitalisti:

è questa la sfida più significativa che ci si presenta di fronte in Europa, in questo drammatico

passaggio d’epoca. Di certo non è un’impresa facile, ce lo ha ampiamente dimostrato, al di là

delle retoriche “adrenaliniche” e consolatorie, l’esperienza fatta in Francia tra il 2005 e il 2006,

dall’esplosione delle banlieue al movimento anti-Cpe. Eppure è da questa difficoltà che si parte.

Cosa ci segnalano, infatti, i tumulti del 14 dicembre o di Londra (estate del 2011), se non proprio la

necessità di ricomporre le figure della povertà dentro un’ipotesi politico-organizzativa che trasformi

la rabbia in progetto di alternativa radicale?

Vale la pena, però, farsi seriamente un’altra domanda. Siamo stati – noi soggettività organizzate

di movimento – adeguati a questa esigenza che le lotte hanno delineato con forza negli ultimi

anni, dall’Italia alla Grecia, da Londra al Maghreb? Noi pensiamo di no e, prima di avanzare delle

proposte, vorremmo fare i conti con la nostra inadeguatezza.

2. Non è molto in uso, negli ambienti politici di movimento, fare autocritica. Criticare aspramente

questo o quel gruppo è l’attività che più appassiona, figurarsi. Mai nessuno, però, che di fronte

all’impotenza comune abbia il coraggio di mettere da parte spirito competitivo e rancori per

dedicare un po’ di tempo ad una sana e robusta autocritica. Quasi che ammettere l’errore significhi

dichiarare la propria debolezza.

Nelle pagine memorabili dedicate alla Comune di Parigi, scrive Marx:

Ma ciononostante la Comune non pretendeva all’infallibilità, attributo invariabile di tutti i governi del

vecchio stampo. Essa rendeva pubblici i suoi atti, le sue parole, essa rendeva noti al pubblico tutti i suoi

difetti.

Sarà che le nostre contemporanee esperienze di auto-organizzazione sono lontane anni luce dalla

forza della Comune parigina del 1871, ma questa lezione di metodo, forse, andrebbe presa in parola.

Avere il «coraggio della verità», per usare un’espressione di Foucault, significa anche fare i conti,

pubblici, con i propri errori, per provare di nuovo, per fare meglio in futuro.

A partire dal settembre 2010 siamo stati protagonisti, tra gli altri, di Uniti contro la crisi e Uniti per

l’Alternativa. Nel primo caso, Uniti contro la crisi, si è trattato di un’ipotesi politica corretta, che

siamo riusciti a verificare e a realizzare solo parzialmente; nel secondo, invece, di un’ipotesi in

buona parte sbagliata, trascinata via dal 15 ottobre e dall’affermazione di Monti e del governo dei

tecnici. Uniti contro la crisi voleva qualificare un primo prototipo di coalizione sociale tra le figure

dello sfruttamento vecchio e nuovo: operai, studenti, precari e attivisti dei centri sociali. La verifica

è stata positiva durante l’autunno, straordinario, del 2010, quello del 16 ottobre della FIOM e

dell’insorgenza studentesca e giovanile del 14 dicembre. Il primo momento di blocco, invece, si è

presentato nella primavera del 2011, quando la CGIL rinvia, per poi rendere innocuo, lo sciopero

generale. Riconoscere il blocco, intendiamoci, non toglie nulla alla correttezza della domanda,

quella relativa alla ricomposizione, cui nessuno, al momento, è stato capace di offrire risposte

adeguate. L’impasse sul terreno e nella costituzione della coalizione sociale ha poi incontrato

la «primavera italiana» di Pisapia e De Magistris e, soprattutto, la vittoria dei referendum.

Sembrava possibile, in quel momento, un’uscita “a sinistra” dall’anomalia berlusconiana e dalla

Seconda Repubblica. Sono stati forti e immediati, però, gli elementi di blocco di questa possibilità:

l’accordo interconfederale del 28 giugno del 2011 in cui la CGIL, nuovamente sul tavolo unitario,

apre il campo alla demolizione della contrattazione collettiva nazionale; l’attacco dei mercati

finanziari e la famosa lettera “programmatica” di Trichet e Draghi del 5 agosto. Nonostante questi

elementi, però, e nella convinzione genuina di poterne ridurre o quanto meno tenere a freno

l’impatto, a settembre del 2011 e in preparazione della grande manifestazione globale del 15

ottobre, abbiamo partecipato alla costituzione di Uniti per l’Alternativa, cartello politico e sociale

che provava a tenere assieme la sfida della coalizione sociale con l’ipotesi politica di uscire a

sinistra, con un ruolo propulsivo dei movimenti e con una sinistra radicale di governo, dal

berlusconismo. Nel concetto di alternativa, infatti, convergevano una molteplicità di interessi

soggettivi e, per lo meno in una prima fase, su di essa si addensava una “produttiva ambiguità”: per

un verso, insistenza sulla capacità programmatica e istituzionale – nel senso dell’istituzionalità

autonoma – dei movimenti; per l’altro, rapporto diretto con alcune “anomalie” interne al campo

della rappresentanza politica. La «gabbia d’acciaio» imposta dai mercati e dalla BCE ha soffocato il

secondo corno della sfida, mettendo in ombra de facto il primo e rendendo l’ipotesi di Uniti per

l’Alternativa in larga parte sbagliata. L’ipotesi sbagliata, inoltre, ha incontrato il disastro, per tutti,

del 15 ottobre. In quell’occasione la miopia iper-soggettivista e, non fatichiamo ad

aggiungere, “politicista” dei gruppi che, ossessionati dalla concorrenza, spezzano a più riprese il

corteo con azioni fatte per dividere, appunto, e non per unire – fenomeno da distinguere dalla giusta

resistenza diffusa alle cariche della polizia di piazza San Giovanni – ha vanificato la potenza di un

movimento di massa che, largamente antiberlusconiano, poteva forse sostenere una dura

opposizione alla svolta autoritaria di Napolitano. La mancata verifica di questa possibilità, la

trasformazione cioè dell’istanza antiberlusconiana in istanza ostile alla mossa anti-democratica del

presidente della Repubblica, non ha tolto nulla alla scorrettezza dell’ipotesi di Uniti per

l’Alternativa: valgono entrambe le cose assieme. La nomina di Monti, da parte dei mercati oltre che

di Napolitano, e la Pax montiana, nella quale siamo ancora immersi, sono lì a dimostrarcelo, allora

come oggi.

3. Raccontati senza pudore virtù e limiti che ci riguardano, proviamo ad allargare lo sguardo. Con

l’avvento di Monti e la gestazione della Terza Repubblica, il termometro delle lotte sociali si è

raffreddato. Non è bastata la peggiore riforma delle pensioni d’Europa, non è bastata la riforma del

lavoro Fornero, quella che arriva lì dove non era arrivato Berlusconi nel 2002: la cancellazione

dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La CGIL ha chiarito, senza ambiguità alcuna, la sua

piena subalternità al PD, maggiore sostenitore del governo dei tecnici, la FIOM da sola è riuscita a

fare poco, i sindacati di base hanno ribadito, nei fatti, la loro debolezza. I cartelli politici e sociali

che si erano costituiti tra il 2010 e il 2011 si sono frantumati tutti, o quasi.

Con onestà, occorrerebbe dirci come stanno le cose: la fine del berlusconismo ha decretato,

materialmente, l’esaurimento di una certa forma del movimento. I movimenti sociali di questi

anni, infatti, compresi i movimenti studenteschi, avevano potuto fare affidamento sul carattere

nefasto dell’anomalia italica. In piazza, per circa un decennio, si combatte un modello sociale ed

economico, ma si combatte anche il tiranno e il suo “impresentabile” (in Europa e nel mondo)

sistema di potere. Il desiderio di mandare a casa il tiranno, quello di Arcore e del bunga bunga,

ha avuto un effetto moltiplicatore della partecipazione ai cortei che contestano questo o quel

provvedimento economico iper-liberista. Finita l’anomalia, i movimenti sono entrati in crisi e alla

crisi, quella economica, si reagisce spesso con la disperazione, altre volte con il corporativismo.

Atteggiamento maturo vorrebbe che, di fronte ad un impasse del genere, le soggettività

organizzate di movimento trovassero momenti di discussione in cui mettere a tema le difficoltà

e, contestualmente, avviare una rinnovata e comune ricerca politica. Prevale, invece, la

frammentazione e il ripiegamento identitario. Ognuno ha bisogno di indicare l’“untore”, per salvarsi

la coscienza, sfogare il nervosismo, esorcizzare la debolezza. Lo è già ora, ma forse lo sarà ancora

per un po’ di tempo, una fase di scomposizione e di reciproche accuse. Provare ad istituire, con la

forza dell’esempio, un modo affermativo e non rancoroso di elaborare il blocco, senza attribuire

colpe, ma avviando sperimentazioni inedite o approfondendo le verifiche appena iniziate, è ciò che

più ci sta a cuore in questo momento. Da qui partiamo.

4. Non saremo a Jesi questo fine settimana. Ci teniamo a chiarirlo pubblicamente, perché con le

compagne e i compagni che saranno a Jesi abbiamo condiviso tanta strada negli ultimi anni, un

patrimonio di relazioni che non sacrificheremo alla logica nefasta dell’ostilità di “schieramento”.

Con loro abbiamo costruito, con passione, esperienze politiche importanti, tra le ultime Uniti contro

la crisi e Uniti per l’Alternativa. Così preziose le relazioni intrattenute in questi anni, che nulla può

essere lasciato alla vaghezza o all’opacità.

Abbiamo letto con molta attenzione il lungo documento che convoca il meeting di Jesi e ci siamo

convinti, leggendo, che l’ipotesi organizzativa nel testo definita non è la nostra. Non ci convince

l’idea che sia l’«omogeneità» del soggetto politico di movimento la premessa di un nuovo percorso

da avviare. Riteniamo opportuno, in questa fase, valorizzare appieno le differenze, assumere

l’eterogeneità (delle figure produttive, così come della composizione politica delle lotte) come

premessa inaggirabile del lavoro politico di movimento. Non sono sufficienti i centri sociali,

inoltre, a poter fare da base ad una nuova ipotesi ricompositiva. Noi a Roma – ma è “biografia”

comune, tra l’altro ‒ non siamo e non siamo mai stati solo centri sociali, per quanto la storia

dell’autogestione, a Roma, sia forse, assieme a quella dei movimenti studenteschi e delle lotte per

il diritto all’abitare, un’esperienza costituente dei movimenti metropolitani. Non ci convince il

metodo che fa di una soggettività omogenea, la coalizione dei centri sociali, il centro privilegiato

di elaborazione del discorso e delle pratiche politiche che riguardano le reti sociali di cui siamo,

in molti casi, protagonisti (dall’Onda alle nuove occupazioni “culturali”, dalle lotte ambientali alla

qualificazione – a partire dai centri sociali – di un rinnovato intervento politico territoriale). Far

crescere dentro le reti sociali che attraversiamo, e di cui siamo la forza, un discorso politico e

programmatico autonomi e autorevoli è quanto oggi più che mai ci serve.

Per questo motivo non saremo a Jesi, per questo motivo abbiamo deciso di ripartire dalla nostra

rete metropolitana. Non è una dichiarazione di inimicizia la nostra, anzi. Solo favorendo la

proliferazione di ipotesi politiche e organizzative che affermano invece che competere è possibile

stabilire una nuova ecologia nelle relazioni tra gruppi di movimento in base, anzi tutto, ad una

modalità di relazione pienamente, nella sostanza, paritaria. Beni preziosi, questa ecologia e la

democrazia dei rapporti interni e tra gruppi, verso cui tutti dovrebbero avere la capacità, oltre che

la maturità, di tendere. Partiamo da noi per parlare con tutte e tutti, e con tanti e diversi cercare

soluzioni inedite.

5. Pensiamo che sia finito il tempo dei grandi cartelli politici nazionali. Con questa affermazione

non vogliamo escludere, in nessun modo, la possibilità di dare nuovamente vita ad ampi processi

ricompositivi. È importante soffermarsi, però, sulla qualità e sul metodo della ricomposizione.

Noi crediamo che occorra ripartire dal “basso”: dalle metropoli come territori investiti dalla

sussunzione capitalistica e dalla speculazione finanziaria e immobiliare; dal patto federativo come

metodo di relazione tra realtà metropolitane di movimento.

Il movimento Occupy e gli Indignados, in questo ultimo anno, ci hanno indicato la necessità di

nuove «invenzioni democratiche». Non si tratta del feticismo delle forme, anzi. Si tratta di pensare

propriamente l’organizzazione politica antagonista a partire dal rovesciamento dell’organizzazione

capitalistica della produzione e dello sfruttamento. Oggi la rete – digitale e linguistica – è il comune

in cui siamo immersi, la nostra «carne», l’elemento che abitiamo e in cui produciamo valore.

Trasformare questa carne in corpo, in prassi politica organizzata e antagonista, nei confronti della

precarietà e della rendita, è ciò cui allude la pretesa di «democrazia reale» degli Indignados o

quella del 99 per cento del movimento Occupy.

Si tratta solo di pretese e prototipi? Indubbiamente. Solo dal “basso” delle nuove pretese di lotta,

però, è possibile ritrovare la bussola. Per questo ripartiamo da Roma, per questo vogliamo fare

dell’orizzontalità propria dei patti federativi il metodo della ricomposizione sociale e politica dei

movimenti. Partiamo da Roma guardando immediatamente a Madrid, ad agora99, meeting che

segue la bella e produttiva esperienza di Blockupy Frankfurt (17-19 maggio 2012) e che stiamo

contribuendo ad organizzare, consapevoli che, solo favorendo la proliferazione di contro-poteri

europei, sarà possibile frenare e poi battere la gestione neoliberale della crisi. I gruppi e i movimenti

dei PIIGS, nel contesto in cui siamo gettati, giocano e giocheranno sempre di più un ruolo decisivo.

Non saranno Hollande o Bersani, infatti, a trascinarci fuori dal guado, il riformismo è davvero

finito. Ci vuole una rottura radicale, piuttosto, capace di percorrere l’Italia e la Spagna, la Grecia

e il Portogallo, una spinta capace di mettere all’angolo le politiche del rigore e i diktat della troika

e di promuovere, con il conflitto, un “New Deal dei beni comuni”, siano essi risorse naturali o

prassi produttiva.

6. Per dare fiato alla nostra sfida costituente, proveremo a costruire un nuovo laboratorio, che

comprenda anche un progetto editoriale.

Un laboratorio politico metropolitano che sappia combinare il «diritto alla città» con una rinnovata

sfida anticapitalista. Lottare contro la precarietà, infatti, oggi sempre di più vuol dire connettere

vertenza sul posto di lavoro e mutualismo, indipendenza della cooperazione produttiva (dal co-

working all’autoformazione) e autogoverno. Combattere la crisi significa, nello stesso tempo,

difendere i beni comuni e combattere le privatizzazioni ‒ che avranno nel territorio e nei servizi

urbani il loro privilegiato campo di applicazione ‒, favorire nuove forme di autorganizzazione dei

precari e del professionismo atipico, degli studenti e dei migranti.

Un progetto editoriale, invece, che sia luogo di incontro e sperimentazione non solo per noi, ma

anche per molti altri che, oltre noi qui a Roma, hanno voglia di mettersi in gioco in una sfida

ambiziosa e per nulla facile. Web e radio, per cominciare, dispositivi utili a qualificare una nuova

ricerca politica che metta al centro le questioni strategiche cui facevamo riferimento all’inizio

di questo breve testo. Costruire la coalizione sociale (dei nuovi poveri, siano essi “declassati”

o “intrappolati”) significa riprendere a fare inchiesta, definire una temporalità politica e del conflitto

che sappia fare i conti, pazientemente, con i blocchi che abbiamo di fronte. Far coincidere prassi

politica e sperimentazione comunicativa, in questo senso, ci sembra il modo migliore per articolare

il rapporto, sempre difficile, tra decisione comune e proliferazione delle lotte, tra inchiesta e

insubordinazione.

Un nuovo esperimento, dunque, che ci metterà tempo prima di decollare, ma che fin dall’inizio

porterà con sé lo spirito che ci contraddistingue. Quello di chi è consapevole che, nel passaggio

d’epoca che ci tocca in sorte, gli “strumenti ordinari” non servono più a nulla, è richiesta,

piuttosto, la capacità di volare alto, il coraggio della verità, la vertigine dell’innovazione.

Action diritti in Movimento, Anomalia Sapienza/UniCommon Roma, Assemblea di Medicina/

Sapienza, Csa Astra 19, Csoa Corto Circuito, Esc – atelier autogestito, Horus Project, Point

Break – studentato occupato, Lab Puzzle – welfare in progress, Csoa Sans Papier, Csoa

Spartaco, Csoa la Strada

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